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Infermieri al tempo del Covid 19

Jasmine, Alessio, Francesca e Noemi ci raccontano le loro esperienze professionali dell’ultimo anno

giovani infermieri Covid

In occasione della Giornata Internazionale dell’Infermiere celebrata il 12 maggio, Doctorswork! ha voluto intervistare quattro giovani professionisti che hanno prestato servizio in reparto Covid nel corso del 2020 dando il loro contributo alla gestione di questa emergenza.

Jasmine_ originaria del Molise e laureata in scienze infermieristiche nel 2017, quando è scoppiata la Pandemia lavorava nel reparto di emodinamica del Maria Cecilia Hospital di Faenza.

Alessio_ 24 anni, romagnolo, lavorava in chirurgia prima di accettare la proposta di trasferimento in reparto Covid.

Francesca_ originaria di Pesaro, laureata nel 2018. Prima dell’epidemia lavorava come infermiera all’Autodromo di Misano e presso una casa di riposo.

Noemi_26 anni di Napoli, dopo gli studi a Roma si è trasferita a Faenza per lavoro. Prima di arrivare in reparto Covid lavorava come infermiera domiciliare libero professionista.

Come è stato l’arrivo in reparto Covid? Quali le prime sensazioni?

J: ho accettato subito e volentieri il trasferimento. Volevo rendermi utile, imparare e capire cosa stesse succedendo. Sono entrata in reparto Covid appena aperto, quindi non sapevamo bene cosa aspettarci. Da un lato ero spaventata perché ancora non si conosceva quasi nulla di questo virus, dall’altro ero comunque curiosa di saperne di più desiderosa di poter essere d’aiuto.

A: anche io ho accettato immediatamente. A gennaio avevo iniziato il master di “infermieristica in area critica” proprio per un mio interesse nel campo delle emergenze e delle urgenze, area nella quale vorrei lavorare in futuro, quindi quando è scoppiata la Pandemia ho subito deciso di dare il mio contributo. La mia paura non era tanto per me, quanto per i familiari con i quali vivevo. Mi ricordo che ogni volta che tornavo a casa lasciavo tutto fuori dalla porta, correvo in camera mia e cercavo di isolarmi il più possibile, in modo da ridurre al minimo i contatti e quindi la possibilità di eventuale trasmissione. Ora sembra tutto più chiaro, ma a marzo 2020 avevamo veramente pochissime informazioni su cui basarci per contenere e prevenire i contagi.

Noemi infermiera
Noemi Ferrara

F: quando è scoppiata la Pandemia io non stavo lavorando, perché ero in attesa che ricominciasse la stagione dell’Autodromo. Mi sono sentita in dovere di rispondere all’appello dell’ospedale di Pesaro che ricercava personale per far fronte all’emergenza, così il 15 marzo ho iniziato in un reparto di semi-intensiva. Il primo impatto è stato disarmante. Avevo visto la situazione in tv e letto articoli di giornale, ma non potevo credere a quello che stava succedendo. L’intero ospedale era stato trasformato in Ospedale Covid e tutto accadeva con una velocità impressionante.

N: anche io ero a casa quando è scoppiata la pandemia. Mi ero trasferita a Faenza da pochissimo e non stavo lavorando. Non ho esitato nemmeno un giorno quando ho saputo che cercavano infermieri in una struttura del territorio, mi sono candidata subito senza pensarci due volte. Ero spaventata come tutti della malattia perché non si sapeva assolutamente niente, ma dal punto di vista lavorativo, etico e morale sentivo che era l’unica cosa da fare.

Quali sono state le maggiori diversità rispetto al lavoro che svolgevi precedentemente?

 J: la differenza più grande è stata sicuramente il rapporto con i pazienti. Lavorare in reparto COVID voleva dire restare con loro per tantissime ore consecutive, giorno dopo giorno, assisterli e diventare l’unica speranza di interagire con un’altra persona è stata davvero un’esperienza toccante. Non eravamo solo infermieri, diventavamo loro parenti, amici, confidenti e persino parrucchieri. Alcune persone sono rimaste in reparto per mesi e riuscivano a riconoscerci da uno sguardo. Sapere di fare così tanta differenza per una persona mi ha veramente colpita.

Alessio infermiere
Alessio de Gennaro

A: L’approccio con il paziente era molto diverso da quello da cui ero abituato (io venivo da un reparto di chirurgia). Occuparsi a 360° di una situazione in emergenza, nella quale non si sapeva bene cosa fare e come fare è stata un’enorme differenza. Dover far fronte ad eventi improvvisi e, allo stesso tempo, rappresentare il volto umano ed essere lì con e per le persone.

F: per me è stato praticamente tutto nuovo, a partire dalle modalità di apprendimento e dalle procedure. E non si trattava di una questione di età o di esperienza precedente. Era così per tutti, perché ci siamo trovati ad affrontare qualcosa di unico. Anche dal punto di vista personale è stato un periodo molto provante. Io ero in semi-intensiva, quindi mi ritrovavo ad assistere pazienti che spesso finivano per non farcela. Persone che non potevano vedere i loro cari, che avevano solo noi ad assisterli e ai quali cercavamo di dare tutto il supporto necessario. Mi sono avvalsa anche del supporto di una psicologa proprio perché era difficilissimo coprire questo ruolo cercando di dare il meglio ogni giorno senza farsi sopraffare dall’angoscia e dalla tristezza.

N: a differenza degli altri forse io ero già abituata al contatto profondo e continuato con i pazienti, venendo da un’esperienza come infermiera domiciliare dove, comunque, mi trovavo in contatto con realtà delicate e difficili e gestivo non solo i pazienti, ma anche i famigliari e la situazione domestica in generale. La grande differenza per me è stato il lavoro in team, poter condividere con altre persone la nuova routine, le preoccupazioni, le difficoltà. Gestire casi anche difficili imparando a vicenda l’uno dall’altro, cercando di affrontare una situazione che era nuova e sconosciuta per tutti.

E dopo il reparto Covid? Cosa fai ora e cosa ti rimarrà in generale di questa esperienza?

 J: quando il reparto ha chiuso, alla fine di maggio, sono tornata in emodinamica dove lavoravo prima. Ciò che mi porterò dietro per sempre è il grande lavoro di squadra. Per me è stata un’esperienza totalmente nuova e diversa rispetto a quanto ero abituata prima. Supportarsi e aiutarsi a vicenda, collaborare quotidianamente sentirsi parte di un team.

A: alla chiusura del reparto sono tornato in chirurgia per alcuni mesi, mentre da aprile di quest’anno ho iniziato a lavorare all’Ospedale Bufalini a Cesena. A livello personale l’esperienza dello scorso anno mi ha insegnato ad apprezzare di più le piccole cose, a dare valore a gesti che prima mi sembravano normali. Per quanto riguarda la sfera professionale, invece, mi porterò sempre il ricordo del lavoro di squadra. Quando lavori 10-14 ore al giorno con le stesse persone è importante trovarsi bene ed aiutarsi reciprocamente e così è stato per noi. Ho trovato una famiglia nei miei colleghi.

Francesca infermiera
Francesca Fulvi

F: alla chiusura della semi-intensiva in cui lavoravo sono stata trasferita in medicina d’urgenza e poi ad ottobre 2020 sono tornata in intensiva covid dove sono rimasta fino a marzo 2021 e ora lavoro per la Asl di Bologna dove al momento effettuo vaccinazioni a domicilio. L’esperienza Covid mi ha fatto crescere tanto professionalmente. Ho dovuto imparare procedure molto complesse molto velocemente, non c’era personale e nessuno era formato per affrontare un’emergenza di tale portata. Di giorno stavo in reparto e la sera studiavo per formarmi sempre di più. Quello che più di ogni altra cosa mi ricorderò e porterò dietro per sempre è la collaborazione tra colleghi e professionisti. Eravamo una squadra e ci si aiutava tutti indipendentemente dal ruolo, età e capacità. Dovevamo essere uniti per farcela e così è stato.

N: quando il reparto è stato chiuso sono stata trasferita prima in terapia intensiva dove sono rimasta per 6 mesi poi in chirurgia e nel frattempo c’è stata un’altra parentesi di reparto Covid quando è scoppiata la seconda ondata e, a quel punto, la situazione era più gestibile, sapevamo già cosa fare e come affrontare il tutto. Di questa esperienza mi rimarrà tutto quello che ho imparato professionalmente, in poco tempo ho acquisito veramente tante capacità, ma più di ogni altra cosa mi resterà un senso di gioia…quella che ho riscoperto facendo il mio lavoro, quella che riuscivo a dare ogni giorno con una parola o uno sguardo, la gioia di poter essere al fianco di chi aveva veramente bisogno e di riscoprire il senso profondo di questa professione.

Cosa ti auguri per il futuro della professione infermieristica?

J: vorrei che fosse riconosciuta come una professione più indipendente e che ci venisse dato atto del fatto che siamo noi ad essere sempre in contatto con i pazienti e non facciamo solamente attività collaterali.

Noemi infermiera
Jasmine Tomasi

A: mi piacerebbe che fosse una professione meno demansionata e venisse riconosciuta per quello che è, ovvero un ruolo importantissimo per la cura del paziente e autonomo nella sua esistenza.

F: vorrei che ci fosse più interesse per la nostra professione e vorrei che l’importanza del lavoro di squadra iniziato con il Covid si trasmettesse anche alle procedure più classiche e standard.

N: mi associo agli altri dicendo che vorrei che non restassero solamente delle belle parole da tutto questo periodo (che poi in realtà ci sono state anche tantissime critiche). Mi piacerebbe che la nostra professione ottenesse maggiori riconoscimenti in qualità del lavoro che facciamo e, perché no, che questo si riflettesse anche sugli stipendi che percepiamo, perché, in fondo, le responsabilità, le conoscenze e l’impegno, oltre alla vocazione, sono altissimi.

 

Doctorswork nasce come piattaforma di job placement con l’obiettivo di trovare e proporre incarichi selezionati, ben retribuiti e in linea con le competenze di ogni giovane medico.

Tuttavia, nell’ultimo anno, complice l’emergenza sanitaria, stanno arrivando sul nostro portale numerose richieste per la ricerca di personale infermieristico, per questo, con lo stile e la filosofia che ci caratterizzano, abbiamo deciso di aprirci anche a questo settore, selezionando opportunità in linea con i requisiti etici e retributivi già adottati per la ricerca di personale medico.

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